“Vittoria e sconfitta sono l’essenza dello sport, il sale della vita, non puoi gioire se prima non hai capito il significato vero e profondo del sacrificio e della sofferenza”. Credo che se la Valcuvia avesse una voce e potesse parlare lo farebbe scegliendo quella di Vittorio Ciresa, il maratoneta di Cuvio che ne ha onorato la bellezza correndole insieme in ogni stagione, con ogni tempo e con quell’amore filiale che caratterizza la tradizione prealpina.
Nella storia di Vittorio la Valcuvia ha un ruolo fondamentale, fin da quando ragazzino inquieto e piuttosto vivace saliva sulla cuspide dei campanili delle chiese abbandonate per osservare il mondo dall’alto. Nel suo libro “Quando il sogno diventa realtà” afferma: “Ero affascinato dagli alberi e dagli animali del bosco. A volte mi sentivo talmente coinvolto che mi sembrava di essere uno di loro. Seguivo le impronte di un daino o quelle di un capriolo, mi fermavo a osservare le poiane e i falchi, mi piacevano tantissimo le lepri e le volpi che abitano stabilmente il nostro territorio”.
Vittorio incarna lo spirito di questa parte del mondo baciata da una bellezza che si apre e si chiude a ventaglio, lasciando allo spettatore la scelta di dove depositare la sua voglia di investigazione e di fuga dai ritmi infernali della città.È nella storia di una valle che prendono forma le oltre trecento vittorie conquistate in carriera, la sua caparbietà, la sua voglia di dimostrare che lo sport non è solo una naturale forma di “razzismo”, ma il modo più bello e naturale per esprimere se stessi, la forza e l’energia che madre natura ci ha donato per rendere ancora più intrigante la nostra vita. Vittorio ama la maratona, ne vince due importantissime, quella di Torino e quella di Milano, battendo il gotha del podismo nazionale ed europeo, ama soprattutto la corsa in montagna, perché gli permette di rimanere incollato ai sentimenti che lo scuotono quando le corre accanto. È nella corsa in montagna che i muscoli si sottomettono a qualcosa che assomiglia a un evento che si manifesta con i colori di un fiore, con l’aroma di una resina, con l’acqua di un fontanile o con il fruscio di un animale distolto dalla sua quiete naturale.
Nella corsa in montagna la vittoria ha un altro fascino, è meno invasiva, meno terribile, meno soggetta alle leggi dell’asfalto: è più umana. Vittorio non disdegna le grandi competizioni nazionali ed europee, ma il suo cuore vibra in modo particolare quando il suo piede batte i sentieri boscosi del forte di Orino, quelli dell’Alpe Perim, del Pozzo Piano, le piane di Casalzuigno, le impennate che aprono le porte dell’Alpe Cuvignone. È felice quando il suo sport si tinge di condivisione solidale, quando vede un sorriso stampato sul viso di chi lotta senza vincere. Ecco come affronta il tema della solidarietà sportiva nel suo libro: “Mi è capitato spesso di dare barrette a qualcuno che ne era rimasto senza, oppure di passare una borraccia d’acqua oppure di sostenere un atleta che aveva bisogno di aiuto, perché lo sport mi ha insegnato che gli altri non sono solo avversari, ma uomini e donne che credono nella bellezza di un gesto, di una fatica condivisa e che come me amano correre, stabilire un contatto. Ho imparato ad aiutare i disabili, quelle persone che grazie allo sport danno un senso più completo alla loro esistenza. Non sono nato per accumulare, ma per donare”.
Sono parole forti, che si legano a una visione più ampia dello spirito sportivo, in cui c’è spazio per una competizione che ha il sapore di un inno alla variopinta capacità di espressione del genere umano. È un Vittorio Ciresa che vince per un misterioso automatismo, ma che riesce a cogliere la forza e la bellezza di un gesto sempre in relazione, mai fine a se stesso. Una vita non facile la sua, spesso sottoposta agl’imprevisti e alle sorprese, condizionata dalla povertà di uno sport che non garantisce a nessuno spazi di euforia, anche quando sei il più forte.
Emblematica è la raccolta delle lattine per affrontare i Campionati del Mondo. Una cosa che nessuno avrebbe mai fatto, neppure per scherzo. Per mesi ha corso gli allenamenti con lo zainetto a tracolla raccogliendo lattine buttate un po’ dappertutto dall’incuria umana. Ha sfidato il sarcasmo della gente pur di raggiungere l’obiettivo. Così descrive nel suo libro: “Tenere pulito l’ambiente correndo era qualcosa che nessuno aveva mai fatto, era un modo per manifestare al mondo l’importanza dell’educazione, della mia educazione. Trentadue centesimi al chilo. Per fare un chilo ci volevano ottantadue lattine. Ne ho raccolte una infinità. Tra i boschi di Orino, a Castello Cabiaglio, al Parco del Campo dei Fiori, sul ciglio della strada, ovunque mi allenassi trovavo pane per i miei denti. Ero felice. Ogni lattina infilata nello zainetto era un passo in più verso il Campionato del Mondo. Quando le mie montagne respirano, respiro anch’io. Non so quante lattine abbia raccolto. Una cosa è certa, mi sono finanziato la Coppa del Mondo senza spillare soldi a nessuno e mi sono classificato secondo a sette secondi dal primo:un trionfo. Mi sono guardato allo specchio e mi sono stimato. Avevo dato una bella lezione ai miei avversari e una bella soddisfazione ai miei tifosi. I soldi sono importanti, ma non sono tutto, a volte ci vuole un pizzico di fantasia e una voglia immensa di soffrire per raggiungere il traguardo”.
In fondo lo sport è anche questo: un grande respiro di umanità fuori dagli artigli di un agonismo repressivo che esalta e distrugge, è stare bene con se stessi e col mondo ricreando un’armonia. È in questa armonia che Vittorio Ciresa gioca le sue carte. Memorabile è la sua Laveno-Monte Rosa, l’epica maratona che lo ha visto protagonista assoluto il 7 giugno 2007. Per ricordare Michela Badalin, l’amica e compagna di maratone e corse in montagna con la maglietta verde della 3V, passa dai 200 metri di Laveno ai 3600 di Capanna Gnifetti, sul Monte Rosa: quasi 150 chilometri di corsa, in 24ore, senza interruzione.
Vittorio arriva con la maglietta di Michela, idealmente insieme, proprio come avevano deciso poco tempo prima che la morte attendesse la giovane atleta cittigliese sul passo Andolla. Ciresa inaugura una vita sportiva che si tinge di passioni estreme, di voglia di essere sportivamente libero di amare, fuori dai vincoli e dalle repressioni di tecnologie e strategie esagerate. Rafforza il legame tra sport e natura, tra corsa e paesaggio, inserendo nella fatica l’umore leggero di profili prealpini a lui tanto cari.
La sua passione sportiva è raccolta nelle sue più significative interviste: “Ho trovato nello sport un grande alleato, nella corsa su strada e in quota una grande terapeuta. Le risposte che mi ha dato la corsa cerco di trasmetterle a tutti, ai giovani in particolare. Ieri come atleta protagonista, poi come allenatore, oggi come presidente di una società sportiva. Riuscire a conciliare turni lavorativi e attività sportiva non è una impresa semplice, ma io non mi sono fermato. Uscivo a mezzanotte e correvo insieme alla luna, provando emozioni che nessun altro, in quel momento, avrebbe potuto provare. L’ambiente naturale è stato per lunghi anni il mio compagno di viaggio, un compagno che ho sempre rispettato e che continuo a rispettare con lo stesso amore e con la stessa passione”.
Per Vittorio la fatica sportiva si stempera nel piacere umano della condivisione, nel consegnare a ogni cosa, anche la più materiale, un volto. E così le sue vittorie hanno il sapore di una conferma di quanto sia bello correre con l’animo sgombro, fuori dagl’intrighi di un’esistenza spesso complicata e confusa. Nello spirito un po’ reazionario di questo grande atleta della Valcuvia c’è la coscienza di quanto sport e vita siano uniti, capaci di promuovere e trasformare, regalando un respiro di freschezza e di leggerezza a un’esistenza soggetta alle ineluttabili contraddizioni del destino.
FONTE: http://www.rmfonline.it/?p=29314
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